MASCARILLA 19 – CODES OF DOMESTIC VIOLENCE
Otto artisti analizzano il tema della violenza domestica durante la pandemia attraverso le opere video di Mascarilla 19 – Codes of domestic violence che offrono prospettive diverse su un tema comune colto nella sua ampiezza e urgenza: ogni opera esplora linguaggi e dimensioni differenti, dalla denuncia di natura documentaristica all’interpretazione simbolica e psicologica delle dinamiche relazionali, esprimendo ognuna la propria sensibilità individuale.
Mascarilla 19 (Mascherina 19) è il nome della campagna lanciata dal premier spagnolo Pedro Sanchez, che non solo accoglie l’appello del Segretario Generale dell’ONU Antonio Gutierrez, ma dà conto dello spaventoso aumento di abusi durante la pandemia, quando molte donne, a causa del lockdown, si sono ritrovate prigioniere delle mura domestiche e impossibilitate a richiedere aiuto. È nato così un S.O.S. segreto, una parola in codice che le vittime di violenza potevano usare con il personale di tutte le farmacie in Spagna, permettendo così l’avvio di un protocollo d’emergenza.
In occasione della presentazione del progetto verranno proiettati presso MANU – Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria le opere di: Iván Argote (Colombia/Francia, 1983), Silvia Giambrone (Italia/Inghilterra, 1981), Eva Giolo (Belgio, 1991), Basir Mahmood (Pakistan/Paesi Bassi, 1985), MASBEDO (Italia, Nicolò Massazza, 1973 e Iacopo Bedogni, 1970), Elena Mazzi (Italia, 1984) e Adrian Paci (Albania/Italia, 1969).
Mascarilla 19 è il primo progetto commissionato e promosso da Fondazione In Between Art Film, da un’idea della sua Fondatrice e Presidente Beatrice Bulgari, che con il riferimento diretto a questa campagna ha voluto sia da un lato richiamare l’attenzione su un’emergenza globale, sia dall’altro dare uno stimolo agli artisti fornendo loro anche un sostegno concreto alla produzione di nuovi progetti quando tutte le produzioni artistiche risultavano sospese.
Progetto a cura di: Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini, Paola Ugolini
Con la collaborazione di:
Proiezione:
Ven. 8 – Sab. 9 Parte 1, h. 17.30; Parte 2, h.18:30
Dom. 10, Parte 1, h. 11.00; Parte 2, h. 12:00
Prenotazioni: www.persofilmfestival.it
Mascarilla 19 – Codes of domestic violence
Parte 1:
Ivan Argote – Espacios Seguros , 19’ 55”
Eva Giolo – Flowers blooming in our throats, 8’ 42”
Basir Mahmood – Sunsets, everyday, 14’ 55”
Parte 2:
Adrian Paci – Vedo Rosso, 11’ 38”
Silvia Giambrone – Domestication, 15’
Elena Mazzi – Muse, 13’ 30”
MASBEDO – Daily Routine, 11’
I FILM
Iván Argote
Espacios Seguros, 2020
Video 2K, 19’ 55’’
Courtesy l’artista, Galerie Perrotin, Galería Vermelho, Galería Albarrán Bourdais e Fondazione In Between Art Film
La ricerca di Iván Argote (n.1983, Bogota; vive e lavora a Parigi) è incentrata sull’indagine dei sistemi complessi che regolano le relazioni tra individui e le modalità con cui la storia, i ruoli sociali e il potere si riflettono sulle strutture delle città e dello spazio pubblico. Le sue opere sono realizzate con una grande varietà di mezzi tra cui: video, fotografia, scultura, disegno e installazione.
In Espacios Seguros (Spazi sicuri) Argote connette idealmente due città che sono legate alla sua biografia: Bogotá, dove è nato e cresciuto, e Parigi, dove si è formato come artista e dove vive. Due contesti molto diversi tra loro su un piano politico, economico e sociale, ma dove la violenza contro le donne è presente con numeri e dinamiche tragicamente simili.
L’artista riprende nel suo quartiere le scritte del collettivo di attiviste anonime “collage feminicides”, che denunciano, attraverso frasi concise e con un’identità grafica semplice ma immediatamente riconoscibile, la diffusione della violenza di genere e dei femminicidi in Francia. Lo zoom della telecamera concentra lentamente il punto di vista sui collage, mentre intorno la città procede con i suoi ritmi abituali, colpevolmente indifferente al dramma che le frasi rivelano. Argote sposta così il terreno del confronto dallo spazio domestico a quello pubblico, costringendoci a riflettere sulla normalizzazione della violenza e sul paradosso di un problema apparentemente nascosto, ma in realtà perfettamente visibile.
Alle immagini dei collage si sovrappone la voce di Diana Rodriguez Franco, “Secretaria de la Mujer de Bogotá” (Segretaria della donna di Bogotá), il ministero della città che si occupa di implementare politiche pubbliche per la prevenzione e il supporto alle donne vittime di violenza. Nell’intervista, realizzata dall’artista, la funzionaria racconta come ha sviluppato il programma Espacios seguros, in risposta al crescente numero di casi di violenza domestica durante la pandemia di COVID-19.
I testi, le immagini e i suoni, seppur in lingue diverse, creano una grammatica comune che sottolinea la gravità della situazione e la necessità di agire subito.
Silvia Giambrone
Domestication, 2020
Video 2K, 15’
Courtesy l’artista, Studio Stefania Miscetti, Galleria Marcolini, Richard Saltoun Gallery e Fondazione In Between Art Film
L’opera di Silvia Giambrone (Agrigento, 1891) di natura prettamente politica, evidenzia e denuncia le modalità dell’assoggettamento femminile attraverso l’impiego di modelli culturali che riguardano il corpo, il comportamento atteso e la manipolazione dell’immaginario. Le sue opere sono un potente dispositivo per riflettere sia sull’addomesticamento alla violenza, che sul tabù che circonda questa pulsione, sulla capacità di poter assoggettare gli altri usando una grammatica affettiva e relazionale socialmente accettata e a cui siamo talmente assuefatti da non riuscire più a riconoscerla come tale.
Silvia Giambrone nel video Domestication ha utilizzato come palinsesto concettuale il Saggio di educazione e istruzione dei fanciulli, scritto dal teologo svizzero Johan Sulzer nel 1748 che muove dal presupposto che “l’educazione non è altro se non apprendimento dell’obbedienza”. Un’obbedienza ottenuta con la coercizione sia fisica che psicologica tanto che questo tipo di pedagogia oggi viene definita dagli
studiosi della materia Pedagogia nera. Questo doloroso insieme di regole, che per secoli ha costituito l’ossatura dell’educazione impartita ai bambini, ha generato una serie di strascichi culturali e comportamentali che, ancora oggi, vengono ritenuti da educatori e psicoterapeuti responsabili per l’attitudine alla violenza che caratterizza le relazioni umane. In un interno domestico due attori, un uomo e una donna, che hanno introiettato il paradigma della violenza all’interno della loro relazione si muovono in maniera evocativa e poetica. I due protagonisti, sono sempre ripresi da soli in quell’ambiente comune, come se fossero uno la proiezione o il ricordo dell’altro, e gli oggetti che entrambi utilizzano diventano i segni tangibili della loro effettiva presenza. Oggetti di uso comune che però se guardati attraverso la lente deformante della violenza diventano potenzialmente pericolosi e sinistri, oggetti che diventano quindi sia i testimoni che gli strumenti di una violenza simbolica. Il confine fra vittima e carnefice è sfumato al punto da rendere difficile definire chi dei due incarna quei due ruoli, tutto il video è pervaso da una tensione che è sempre sul punto di scoppiare perché ormai incistata non solo nello spazio domestico ma anche nella psiche dei suoi abitanti. Il registro visivo è un’alternanza di ritmi ossessivi e disturbanti con dei momenti quasi onirici nonostante la credibilità dell’ambiente e dei personaggi.
Eva Giolo
Flowers blooming in our throats, 2020
16mm trasferito su supporto digitale, 8’ 42″
Courtesy l’artista, Fondazione In Between Art Film e Elephy
Eva Giolo (n.1991 Bruxelles) è un’artista visiva che impiega strategie documentarie per indagare storie personali e familiari, con uno sguardo intenso e sensibile sul mondo femminile. Nella sua pratica utilizza spesso riprese in 16mm e found footage provenienti da archivi di home video e dal suo privato.
Filmato in 16mm subito dopo il lockdown dovuto alla pandemia di COVID-19, Flowers blooming in our throats è un ritratto cinematografico intimo e poetico dei fragili equilibri che regolano la quotidianità nel contesto domestico. L’artista riprende un gruppo di donne, con cui condivide legami di amicizia, mentre nelle loro case eseguono piccole azioni seguendo le sue indicazioni. Giolo sceglie di percorrere
un confine labile dove i gesti rimangono simbolicamente ambigui, espressione di una violenza non immediatamente riconoscibile. Mani che cercano di sostenersi e di sottrarsi, ma anche di stringere e colpire, in un gioco sottile di suoni e riferimenti che alimenta il senso di tensione e disagio nello spettatore. Una conversazione gestuale, composta da sequenze visive che si ripetono, in cui il tempo è scandito dalla rotazione di una piccola trottola, anch’essa instabile e precaria come gli equilibri in una relazione affettiva.
L’artista utilizza ripetutamente un filtro rosso sull’obiettivo, creando un dispositivo concettuale che sfrutta un elemento di astrazione per occultare e trasfigurare le immagini. L’inserimento meccanico del filtro nell’obiettivo diventa così una simulazione di un atto violento, che immediatamente cambia la nostra percezione della memoria di uno stesso gesto già visto in precedenza.
Questa compresenza di opposti si ritrova anche nel titolo che metaforicamente associa alla bellezza di un fenomeno naturale, e implicitamente all’amore, il rischio di trasformarsi in un impulso soffocante.
Basir Mahmood
Sunsets, everyday, 2020
Video, 14’ 55’’
Courtesy l’artista e Fondazione In Between Art Film
Formatosi come scultore, Basir Mahmood (n. 1985, Lahore; vive e lavora ad Amsterdam) utilizza il video e la fotografia per riflettere sui meccanismi di costruzione del linguaggio cinematografico e per confrontarsi con il valore estetico e politico della realtà quotidiana.
Sunsets, everyday è il risultato di una ricerca iniziata dall’artista immaginando il processo, sia fisico che cinematografico, che genera le immagini di violenza domestica. Durante il lockdown alcune vittime hanno coraggiosamente utilizzato i social media per condividere fotografie dei loro volti, per incoraggiare altre donne a denunciare. Le ferite e i segni sui loro corpi erano l’unica prova tangibile dei colpi e del dolore che avevano subito, e per l’artista sono state il punto di partenza per riflettere su tutto quello che accade lontano dal nostro sguardo.
Mahmood ha quindi commissionato a un team di produzione cinematografica in Pakistan di ricreare e filmare in sua assenza una scena ripetuta di violenza domestica, seguendo le sue istruzioni e alcune immagini di riferimento. Mentre la troupe principale era impegnata a lavorare, due cameramen avevano l’indicazione di filmare in continuo l’intero processo e gli elementi del set nei minimi dettagli. Questa metodologia di lavoro a distanza, da lui spesso utilizzata, attiva una riflessione su un piano concettuale sul ruolo dell’artista e sulla sua autorialità, rendendolo testimone e osservatore della sua stessa opera.
La messa in scena della violenza è quindi ciò che genera le immagini sullo schermo, ma l’atto in sé è quasi del tutto negato allo spettatore. Sono infatti visibili solo stretti primi piani e piccole porzioni di corpi femminili. L’artista rifiuta così qualsiasi spettacolarizzazione e si concentra invece sul processo cinematografico e sui codici del suo linguaggio. Un metacinema della violenza i cui protagonisti sono tecnici e membri della troupe sottoposti alla richiesta estenuante di ripetere la scena per 16 ore consecutive di riprese. Il set stesso è indagato dalla telecamera con uno sguardo forense, e gli oggetti che lo compongono sono portati sullo stesso piano di valore delle persone. Testimoni forzati della violenza che si consuma di fronte a loro. La riproposizione quasi ossessiva degli stessi gesti, come la pulizia del pavimento, diventa così espressione della quotidianità della violenza. Un atto che si ripete attraverso una tragica continuità. Tutti i giorni, inevitabile come un “tramonto”.
MASBEDO
Daily Routine, 2020
Video 4K, 11’
Courtesy gli artisti e Fondazione In Between Art Film
MASBEDO è un duo artistico formato da Nicolò Massazza (1973, Milano) e Jacopo Bedogni (1970, Sarzana) e la cui pratica si articola in video, film, performance e installazione, fino ad arrivare a collaborazioni nel campo della regia teatrale e lirica. Attraverso un vocabolario formale che attinge alla dimensione simbolica delle immagini in movimento, gli artisti esplorano l’universo delle relazioni umane nei loro aspetti più profondi, legati spesso ai temi dell’incomunicabilità e della distanza psicologica.
La protagonista di Daily Routine abita una casa spoglia fatta di vetro e cemento, all’interno della quale pochi arredi minimalisti punteggiano uno spazio altrimenti vuoto. Dall’imbrunire fino alla notte, la sua solitudine è interrotta da una sequenza di gesti ordinari cui sembra essere ormai assuefatta: controllare le telecamere di sicurezza, fumare, prepararsi la cena e allenarsi su una cyclette ellittica. Diventa presto evidente come questa architettura severa e trasparente sia, in realtà, uno strumento di controllo: tutto è visibile dall’esterno e uno sguardo lontano sembra registrare ogni movimento che avvenga all’interno di questa struttura del dominio.
Il silenzio che grava su questa casa è interrotto solo da poche, perentorie comunicazioni telefoniche, quasi fossero istruzioni che non richiedono risposte: una voce maschile si assicura che tutto sia sigillato ed esprime soddisfazione per la perfezione degli arredi. Attraverso una estrema economia di azioni e narrazione, i Masbedo trasformano la telecamera in uno strumento ossessivo del dominio maschile, mettendo in scena di quest’ultimo il delirio narcisistico, l’ansia di controllo e l’espressione della violenza attraverso la più quita forma di oggettificazione della propria partner. In Daily Routine l’abuso non ha bisogno di manifestarsi in gesti improvvisi ed eclatanti: esso si è, infatti, sedimentato nella dinamica relazionale di coppia, impregna i muri e si riflette sulle ampie vetrate, abita i silenzi e scandisce con ritmo infernale l’allenamento fisico, fino a penetrare nei gesti stessi della nutrizione. Ed è proprio nell’aspetto meccanico dell’esercizio fisico che si esprime la dimensione più sottile ed agghiacciante di quest’opera, che della violenza evoca il basso continuo e il battito costante.
Elena Mazzi
Muse, 2020
Video 4K, 13’ 30’’
Courtesy l’artista, galleria Ex Elettrofonica e Fondazione In Between Art Film
La poetica di Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984) riguarda il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Seguendo un approccio prevalentemente antropologico, la sua analisi indaga e documenta l’identità sia personale che collettiva relativa a uno specifico territorio mettendo in evidenza le diverse forme di scambio e trasformazione.
Elena Mazzi nel video Muse accompagna per mano lo spettatore nell’incubo della violenza di genere attraverso la bellezza straniante delle statue greco-romane conservate nell’Antiquarium della Domus Grimani a Venezia. Il video inizia con delle inquadrature di particolari di interni come se quelle sale fossero ancora vissute mentre una voce narrante ci porta nell’intimità della persona che abitava, o forse ancora abita, quelle stanze solitarie. Il ritmo visivo cambia quando la camera comincia ad inquadrare particolari anatomici dei corpi e dei volti di uomini e donne dell’antichità, corpi restaurati, rimessi insieme, tagli e suture nel marmo, dettagli su mani dalle dita mozzate, gambe e corpi che si susseguono, mettendo in relazione statue maschili e femminili da diverse angolazioni, con luci naturali che tagliano gli sguardi. Sono statue trafugate da altri luoghi, in un’epoca di crudo colonialismo che stride con il perfetto equilibrio estetico in cui sono allestite. Sono corpi che ci raccontano storie lontane, di relazioni amorose, di violenza, di mito, di saccheggio, di morte e di rinascita. La voce narrante ci parla di stupri, di rapimenti e di dei violenti che non esitano a trasformarsi per poter raggirare le loro prede sessuali, esseri umani disarmati e bellissimi sia uomini che donne. Il testo è stato costruito selezionando alcuni miti in cui la violenza è il fulcro del racconto e inserendolo in una narrazione più ampia che mette in relazione quel passato mitologico con la contemporaneità mettendo in evidenza come certe dinamiche comportamentali si ripetano ancora oggi sempre uguali. Questa narrazione visivamente potente ci porta in un mondo violento, quello del mito, fatto di sopraffazione e dominazione e in cui questa violenza viene agita direttamente da un Dio iroso e desiderante.
Adrian Paci
Vedo rosso, 2020
Video, 11’ 38’’
Testo e voce: Daria Deflorian
Courtesy l’artista, kaufmann repetto, Peter Kilchmann Gallery e Fondazione In Between Art Film
Sin dalla fine degli anni Novanta, Adrian Paci (1969, Shkodër, Albania. Vive e lavora a Milano) ha sviluppato una pratica artistica che contempla video, film, pittura, fotografia e installazione. Centrale nel suo lavoro è il tema della dislocazione, che Paci affronta attraverso la rappresentazione dei flussi migratori globali e, con linguaggio poetico e metaforico, trattando la trasformazione delle immagini tra cinema e pittura, la natura cangiante della memoria personale e il rapporto tra immagini in movimento, storia e realtà.
In Vedo rosso le immagini sono pressoché assenti: lo schermo è saturo di un rosso palpitante che, solo per alcuni istanti, è interrotto dalla comparsa di un occhio. La scelta, quasi paradossale, di affrontare il dramma della violenza domestica attraverso la negazione dell’immagine rivela una sorta di “impossibilità” del racconto: il rosso, infatti, è quello di un dito che ostruisce la telecamera del telefonino, una sorta di errore, di disturbo della registrazione delle immagini che sovente accade. È come se l’obiettivo del cellulare non riuscisse a riprendere l’ambiente domestico e fosse continuamente frustrato, ricacciato in una dimensione claustrofobica.
Gli occhi che fanno una fugace apparizione sono frammenti di ritratti filmici di rifugiate siriane che Paci ha girato a Beirut nel 2018: anche qui siamo di fronte a un movimento – quello migratorio e legato alla salvezza – che viene negato, insieme con la possibilità, spesso sottratta ai rifugiati, di raccontare la propria storia al di là delle semplificazioni prodotte dei media.
Un testo originale scritto e interpretato dall’autrice teatrale e attrice Daria Deflorian fornisce la struttura narrativa: qui il potere del racconto trasforma l’assenza di immagini in uno spazio drammaturgico e di ascolto cui lo spettatore non può sottrarsi, e che trasmette tanto la complessità e le contraddizioni dell’abuso quanto la vischiosità di certe relazioni.
Vedo rosso è una polifonia per colore e voce, una tessitura che intreccia tre forme di isolamento, di costrizione e di negazione tanto spaziali quanto interiori e che tematizza sia il limite – fisico, psicologico, individuale e collettivo – sia il desiderio del suo superamento.
MASCARILLA 19 – CODES OF DOMESTIC VIOLENCE
Otto artisti analizzano il tema della violenza domestica durante la pandemia attraverso i cortometraggi di Mascarilla 19 – Codes of domestic violence che offrono prospettive diverse su un tema comune colto nella sua ampiezza e urgenza: ogni opera esprime una sensibilità individuale, esplorando linguaggi e dimensioni differenti, dalla denuncia di natura documentaristica all’interpretazione simbolica e psicologica delle dinamiche relazionali.
Mascarilla 19 (Mascherina 19) è il nome della campagna lanciata dal premier spagnolo Pedro Sanchez, che non solo accoglie l’appello del Segretario Generale dell’ONU Antonio Gutierrez, ma dà conto dello spaventoso aumento di abusi durante la pandemia, quando molte donne, a causa del lockdown, si sono ritrovate prigioniere delle mura domestiche e impossibilitate a richiedere aiuto. È nato così un S.O.S. segreto, una parola in codice che le vittime di violenza potevano usare con il personale di tutte le farmacie in Spagna, permettendo così l’avvio di un protocollo d’emergenza.
In occasione della presentazione del progetto verranno proiettati presso MANU – Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria le opere di: Iván Argote (Colombia/Francia, 1983), Silvia Giambrone (Italia/Inghilterra, 1981), Eva Giolo (Belgio, 1991), Basir Mahmood (Pakistan/Paesi Bassi, 1985), MASBEDO (Italia, Nicolò Massazza, 1973 e Iacopo Bedogni, 1970), Elena Mazzi (Italia, 1984), Adrian Paci (Albania/Italia, 1969).
Mascarilla 19 è il primo progetto commissionato e promosso da Fondazione In Between Art Film, che con il riferimento diretto a questa campagna ha voluto da un lato richiamare l’attenzione su un’emergenza globale, dall’altro dare uno stimolo agli artisti fornendo loro anche un sostegno concreto alla produzione di nuovi progetti quando tutte le produzioni artistiche risultavano sospese.
Progetto a cura di: Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini, Paola Ugolini
Con la collaborazione di:
Proiezione:
Ven. 8 – Sab. 9 Parte 1, h. 17.30; Parte 2, h.18:30
Dom. 10, Parte 1, h. 11.00; Parte 2, h. 12:00
Prenotazioni: www.persofilmfestival.it
Mascarilla 19 – Codes of domestic violence
Parte 1:
Ivan Argote – Espacios Seguros , 19’ 55”
Eva Giolo – Flowers blooming in our throats, 8’ 42”
Basir Mahmood – Sunsets, everyday, 14’ 55”
Parte 2:
Adrian Paci – Vedo Rosso, 11’ 38”
Silvia Giambrone – Domestication, 15’
Elena Mazzi – Muse, 13’ 30”
MASBEDO – Daily Routine, 11’
I FILM
Iván Argote
Espacios Seguros, 2020
Video 2K, 19’ 55’’
Courtesy l’artista, Galerie Perrotin, Galería Vermelho, Galería Albarrán Bourdais e Fondazione In Between Art Film
La ricerca di Iván Argote (n.1983, Bogota; vive e lavora a Parigi) è incentrata sull’indagine dei sistemi complessi che regolano le relazioni tra individui e le modalità con cui la storia, i ruoli sociali e il potere si riflettono sulle strutture delle città e dello spazio pubblico. Le sue opere sono realizzate con una grande varietà di mezzi tra cui: video, fotografia, scultura, disegno e installazione.
In Espacios Seguros (Spazi sicuri) Argote connette idealmente due città che sono legate alla sua biografia: Bogotá, dove è nato e cresciuto, e Parigi, dove si è formato come artista e dove vive. Due contesti molto diversi tra loro su un piano politico, economico e sociale, ma dove la violenza contro le donne è presente con numeri e dinamiche tragicamente simili.
L’artista riprende nel suo quartiere le scritte del collettivo di attiviste anonime “collage feminicides”, che denunciano, attraverso frasi concise e con un’identità grafica semplice ma immediatamente riconoscibile, la diffusione della violenza di genere e dei femminicidi in Francia. Lo zoom della telecamera concentra lentamente il punto di vista sui collage, mentre intorno la città procede con i suoi ritmi abituali, colpevolmente indifferente al dramma che le frasi rivelano. Argote sposta così il terreno del confronto dallo spazio domestico a quello pubblico, costringendoci a riflettere sulla normalizzazione della violenza e sul paradosso di un problema apparentemente nascosto, ma in realtà perfettamente visibile.
Alle immagini dei collage si sovrappone la voce di Diana Rodriguez Franco, “Secretaria de la Mujer de Bogotá” (Segretaria della donna di Bogotá), il ministero della città che si occupa di implementare politiche pubbliche per la prevenzione e il supporto alle donne vittime di violenza. Nell’intervista, realizzata dall’artista, la funzionaria racconta come ha sviluppato il programma Espacios seguros, in risposta al crescente numero di casi di violenza domestica durante la pandemia di COVID-19.
I testi, le immagini e i suoni, seppur in lingue diverse, creano una grammatica comune che sottolinea la gravità della situazione e la necessità di agire subito.
Silvia Giambrone
Domestication, 2020
Video 2K, 15’
Courtesy l’artista, Studio Stefania Miscetti, Galleria Marcolini, Richard Saltoun Gallery e Fondazione In Between Art Film
L’opera di Silvia Giambrone (Agrigento, 1891) di natura prettamente politica, evidenzia e denuncia le modalità dell’assoggettamento femminile attraverso l’impiego di modelli culturali che riguardano il corpo, il comportamento atteso e la manipolazione dell’immaginario. Le sue opere sono un potente dispositivo per riflettere sia sull’addomesticamento alla violenza, che sul tabù che circonda questa pulsione, sulla capacità di poter assoggettare gli altri usando una grammatica affettiva e relazionale socialmente accettata e a cui siamo talmente assuefatti da non riuscire più a riconoscerla come tale.
Silvia Giambrone nel video Domestication ha utilizzato come palinsesto concettuale il Saggio di educazione e istruzione dei fanciulli, scritto dal teologo svizzero Johan Sulzer nel 1748 che muove dal presupposto che “l’educazione non è altro se non apprendimento dell’obbedienza”. Un’obbedienza ottenuta con la coercizione sia fisica che psicologica tanto che questo tipo di pedagogia oggi viene definita dagli
studiosi della materia Pedagogia nera. Questo doloroso insieme di regole, che per secoli ha costituito l’ossatura dell’educazione impartita ai bambini, ha generato una serie di strascichi culturali e comportamentali che, ancora oggi, vengono ritenuti da educatori e psicoterapeuti responsabili per l’attitudine alla violenza che caratterizza le relazioni umane. In un interno domestico due attori, un uomo e una donna, che hanno introiettato il paradigma della violenza all’interno della loro relazione si muovono in maniera evocativa e poetica. I due protagonisti, sono sempre ripresi da soli in quell’ambiente comune, come se fossero uno la proiezione o il ricordo dell’altro, e gli oggetti che entrambi utilizzano diventano i segni tangibili della loro effettiva presenza. Oggetti di uso comune che però se guardati attraverso la lente deformante della violenza diventano potenzialmente pericolosi e sinistri, oggetti che diventano quindi sia i testimoni che gli strumenti di una violenza simbolica. Il confine fra vittima e carnefice è sfumato al punto da rendere difficile definire chi dei due incarna quei due ruoli, tutto il video è pervaso da una tensione che è sempre sul punto di scoppiare perché ormai incistata non solo nello spazio domestico ma anche nella psiche dei suoi abitanti. Il registro visivo è un’alternanza di ritmi ossessivi e disturbanti con dei momenti quasi onirici nonostante la credibilità dell’ambiente e dei personaggi.
Eva Giolo
Flowers blooming in our throats, 2020
16mm trasferito su supporto digitale, 8’ 42″
Courtesy l’artista, Fondazione In Between Art Film e Elephy
Eva Giolo (n.1991 Bruxelles) è un’artista visiva che impiega strategie documentarie per indagare storie personali e familiari, con uno sguardo intenso e sensibile sul mondo femminile. Nella sua pratica utilizza spesso riprese in 16mm e found footage provenienti da archivi di home video e dal suo privato.
Filmato in 16mm subito dopo il lockdown dovuto alla pandemia di COVID-19, Flowers blooming in our throats è un ritratto cinematografico intimo e poetico dei fragili equilibri che regolano la quotidianità nel contesto domestico. L’artista riprende un gruppo di donne, con cui condivide legami di amicizia, mentre nelle loro case eseguono piccole azioni seguendo le sue indicazioni. Giolo sceglie di percorrere
un confine labile dove i gesti rimangono simbolicamente ambigui, espressione di una violenza non immediatamente riconoscibile. Mani che cercano di sostenersi e di sottrarsi, ma anche di stringere e colpire, in un gioco sottile di suoni e riferimenti che alimenta il senso di tensione e disagio nello spettatore. Una conversazione gestuale, composta da sequenze visive che si ripetono, in cui il tempo è scandito dalla rotazione di una piccola trottola, anch’essa instabile e precaria come gli equilibri in una relazione affettiva.
L’artista utilizza ripetutamente un filtro rosso sull’obiettivo, creando un dispositivo concettuale che sfrutta un elemento di astrazione per occultare e trasfigurare le immagini. L’inserimento meccanico del filtro nell’obiettivo diventa così una simulazione di un atto violento, che immediatamente cambia la nostra percezione della memoria di uno stesso gesto già visto in precedenza.
Questa compresenza di opposti si ritrova anche nel titolo che metaforicamente associa alla bellezza di un fenomeno naturale, e implicitamente all’amore, il rischio di trasformarsi in un impulso soffocante.
Basir Mahmood
Sunsets, everyday, 2020
Video, 14’ 55’’
Courtesy l’artista e Fondazione In Between Art Film
Formatosi come scultore, Basir Mahmood (n. 1985, Lahore; vive e lavora ad Amsterdam) utilizza il video e la fotografia per riflettere sui meccanismi di costruzione del linguaggio cinematografico e per confrontarsi con il valore estetico e politico della realtà quotidiana.
Sunsets, everyday è il risultato di una ricerca iniziata dall’artista immaginando il processo, sia fisico che cinematografico, che genera le immagini di violenza domestica. Durante il lockdown alcune vittime hanno coraggiosamente utilizzato i social media per condividere fotografie dei loro volti, per incoraggiare altre donne a denunciare. Le ferite e i segni sui loro corpi erano l’unica prova tangibile dei colpi e del dolore che avevano subito, e per l’artista sono state il punto di partenza per riflettere su tutto quello che accade lontano dal nostro sguardo.
Mahmood ha quindi commissionato a un team di produzione cinematografica in Pakistan di ricreare e filmare in sua assenza una scena ripetuta di violenza domestica, seguendo le sue istruzioni e alcune immagini di riferimento. Mentre la troupe principale era impegnata a lavorare, due cameramen avevano l’indicazione di filmare in continuo l’intero processo e gli elementi del set nei minimi dettagli. Questa metodologia di lavoro a distanza, da lui spesso utilizzata, attiva una riflessione su un piano concettuale sul ruolo dell’artista e sulla sua autorialità, rendendolo testimone e osservatore della sua stessa opera.
La messa in scena della violenza è quindi ciò che genera le immagini sullo schermo, ma l’atto in sé è quasi del tutto negato allo spettatore. Sono infatti visibili solo stretti primi piani e piccole porzioni di corpi femminili. L’artista rifiuta così qualsiasi spettacolarizzazione e si concentra invece sul processo cinematografico e sui codici del suo linguaggio. Un metacinema della violenza i cui protagonisti sono tecnici e membri della troupe sottoposti alla richiesta estenuante di ripetere la scena per 16 ore consecutive di riprese. Il set stesso è indagato dalla telecamera con uno sguardo forense, e gli oggetti che lo compongono sono portati sullo stesso piano di valore delle persone. Testimoni forzati della violenza che si consuma di fronte a loro. La riproposizione quasi ossessiva degli stessi gesti, come la pulizia del pavimento, diventa così espressione della quotidianità della violenza. Un atto che si ripete attraverso una tragica continuità. Tutti i giorni, inevitabile come un “tramonto”.
MASBEDO
Daily Routine, 2020
Video 4K, 11’
Courtesy gli artisti e Fondazione In Between Art Film
MASBEDO è un duo artistico formato da Nicolò Massazza (1973, Milano) e Jacopo Bedogni (1970, Sarzana) e la cui pratica si articola in video, film, performance e installazione, fino ad arrivare a collaborazioni nel campo della regia teatrale e lirica. Attraverso un vocabolario formale che attinge alla dimensione simbolica delle immagini in movimento, gli artisti esplorano l’universo delle relazioni umane nei loro aspetti più profondi, legati spesso ai temi dell’incomunicabilità e della distanza psicologica.
La protagonista di Daily Routine abita una casa spoglia fatta di vetro e cemento, all’interno della quale pochi arredi minimalisti punteggiano uno spazio altrimenti vuoto. Dall’imbrunire fino alla notte, la sua solitudine è interrotta da una sequenza di gesti ordinari cui sembra essere ormai assuefatta: controllare le telecamere di sicurezza, fumare, prepararsi la cena e allenarsi su una cyclette ellittica. Diventa presto evidente come questa architettura severa e trasparente sia, in realtà, uno strumento di controllo: tutto è visibile dall’esterno e uno sguardo lontano sembra registrare ogni movimento che avvenga all’interno di questa struttura del dominio.
Il silenzio che grava su questa casa è interrotto solo da poche, perentorie comunicazioni telefoniche, quasi fossero istruzioni che non richiedono risposte: una voce maschile si assicura che tutto sia sigillato ed esprime soddisfazione per la perfezione degli arredi. Attraverso una estrema economia di azioni e narrazione, i Masbedo trasformano la telecamera in uno strumento ossessivo del dominio maschile, mettendo in scena di quest’ultimo il delirio narcisistico, l’ansia di controllo e l’espressione della violenza attraverso la più quita forma di oggettificazione della propria partner. In Daily Routine l’abuso non ha bisogno di manifestarsi in gesti improvvisi ed eclatanti: esso si è, infatti, sedimentato nella dinamica relazionale di coppia, impregna i muri e si riflette sulle ampie vetrate, abita i silenzi e scandisce con ritmo infernale l’allenamento fisico, fino a penetrare nei gesti stessi della nutrizione. Ed è proprio nell’aspetto meccanico dell’esercizio fisico che si esprime la dimensione più sottile ed agghiacciante di quest’opera, che della violenza evoca il basso continuo e il battito costante.
Elena Mazzi
Muse, 2020
Video 4K, 13’ 30’’
Courtesy l’artista, galleria Ex Elettrofonica e Fondazione In Between Art Film
La poetica di Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984) riguarda il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Seguendo un approccio prevalentemente antropologico, la sua analisi indaga e documenta l’identità sia personale che collettiva relativa a uno specifico territorio mettendo in evidenza le diverse forme di scambio e trasformazione.
Elena Mazzi nel video Muse accompagna per mano lo spettatore nell’incubo della violenza di genere attraverso la bellezza straniante delle statue greco-romane conservate nell’Antiquarium della Domus Grimani a Venezia. Il video inizia con delle inquadrature di particolari di interni come se quelle sale fossero ancora vissute mentre una voce narrante ci porta nell’intimità della persona che abitava, o forse ancora abita, quelle stanze solitarie. Il ritmo visivo cambia quando la camera comincia ad inquadrare particolari anatomici dei corpi e dei volti di uomini e donne dell’antichità, corpi restaurati, rimessi insieme, tagli e suture nel marmo, dettagli su mani dalle dita mozzate, gambe e corpi che si susseguono, mettendo in relazione statue maschili e femminili da diverse angolazioni, con luci naturali che tagliano gli sguardi. Sono statue trafugate da altri luoghi, in un’epoca di crudo colonialismo che stride con il perfetto equilibrio estetico in cui sono allestite. Sono corpi che ci raccontano storie lontane, di relazioni amorose, di violenza, di mito, di saccheggio, di morte e di rinascita. La voce narrante ci parla di stupri, di rapimenti e di dei violenti che non esitano a trasformarsi per poter raggirare le loro prede sessuali, esseri umani disarmati e bellissimi sia uomini che donne. Il testo è stato costruito selezionando alcuni miti in cui la violenza è il fulcro del racconto e inserendolo in una narrazione più ampia che mette in relazione quel passato mitologico con la contemporaneità mettendo in evidenza come certe dinamiche comportamentali si ripetano ancora oggi sempre uguali. Questa narrazione visivamente potente ci porta in un mondo violento, quello del mito, fatto di sopraffazione e dominazione e in cui questa violenza viene agita direttamente da un Dio iroso e desiderante.
Adrian Paci
Vedo rosso, 2020
Video, 11’ 38’’
Testo e voce: Daria Deflorian
Courtesy l’artista, kaufmann repetto, Peter Kilchmann Gallery e Fondazione In Between Art Film
Sin dalla fine degli anni Novanta, Adrian Paci (1969, Shkodër, Albania. Vive e lavora a Milano) ha sviluppato una pratica artistica che contempla video, film, pittura, fotografia e installazione. Centrale nel suo lavoro è il tema della dislocazione, che Paci affronta attraverso la rappresentazione dei flussi migratori globali e, con linguaggio poetico e metaforico, trattando la trasformazione delle immagini tra cinema e pittura, la natura cangiante della memoria personale e il rapporto tra immagini in movimento, storia e realtà.
In Vedo rosso le immagini sono pressoché assenti: lo schermo è saturo di un rosso palpitante che, solo per alcuni istanti, è interrotto dalla comparsa di un occhio. La scelta, quasi paradossale, di affrontare il dramma della violenza domestica attraverso la negazione dell’immagine rivela una sorta di “impossibilità” del racconto: il rosso, infatti, è quello di un dito che ostruisce la telecamera del telefonino, una sorta di errore, di disturbo della registrazione delle immagini che sovente accade. È come se l’obiettivo del cellulare non riuscisse a riprendere l’ambiente domestico e fosse continuamente frustrato, ricacciato in una dimensione claustrofobica.
Gli occhi che fanno una fugace apparizione sono frammenti di ritratti filmici di rifugiate siriane che Paci ha girato a Beirut nel 2018: anche qui siamo di fronte a un movimento – quello migratorio e legato alla salvezza – che viene negato, insieme con la possibilità, spesso sottratta ai rifugiati, di raccontare la propria storia al di là delle semplificazioni prodotte dei media.
Un testo originale scritto e interpretato dall’autrice teatrale e attrice Daria Deflorian fornisce la struttura narrativa: qui il potere del racconto trasforma l’assenza di immagini in uno spazio drammaturgico e di ascolto cui lo spettatore non può sottrarsi, e che trasmette tanto la complessità e le contraddizioni dell’abuso quanto la vischiosità di certe relazioni.
Vedo rosso è una polifonia per colore e voce, una tessitura che intreccia tre forme di isolamento, di costrizione e di negazione tanto spaziali quanto interiori e che tematizza sia il limite – fisico, psicologico, individuale e collettivo – sia il desiderio del suo superamento.