Scheda tecnica
Regia:Francesco Munzi
Produttore:OLIVIA MUSINI
Produzione:CINEMAUNDICI e RAI CINEMA
Fotografia:Valerio Azzali
Montaggio:Cristiano Travaglioli
Caratteristiche:Con il sostegno della DIREZIONE GENERALE CINEMA e AUDIOVISIVO
Soggetto: Francesco Munzi
Musiche originali: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Sinossi
Kripton indaga la vita sospesa di sei ragazzi, tra i venti e i trent’anni, volontariamente
ricoverati in due comunità psichiatriche della periferia romana, che combattono con
disturbi della personalità e stati di alterazione. Attraverso il racconto della quotidianità dei
nostri protagonisti, delle relazioni che intrecciano tra di loro e con il mondo “adulto”
composto da psichiatri, professionisti e dalle stesse famiglie, il film ci porta a esplorare in
profondità la soggettività umana. La condizione estrema del disturbo mentale diventa la
chiave per avvicinarsi all’abisso misterioso della nostra mente e, allo stesso tempo,
possibile metafora del nostro tempo.
Note di regia
Kripton, che in greco significa nascosto, è il nome di un elemento chimico
considerato storicamente imprendibile e sfuggito ad ogni tentativo di
identificazione fino alle soglie del 900.
Ma Kripton (anzi Krypton) è anche un pianeta immaginario, luogo di provenienza
di Clark Kent alias Superman.
Per noi Kripton è soprattutto il luogo di nascita di Marco Antonio, uno dei
protagonisti del nostro film, almeno così ci racconta lui, specificando che il
pianeta non è esploso come tutti dicono, ma sta ancora lì e “non è remotissimo”
anche se in effetti “alquanto remoto è”.
Il mio film nasce da progressivi avvicinamenti, all’interno di due strutture
psichiatriche della periferia di Roma, a ragazze e ragazzi, affetti da malattie
psichiche. È un film di ricerca e di condivisione, fatto con i pazienti che hanno
scelto di raccontarsi. Insieme a loro hanno partecipato i medici e i familiari il cui
contributo è stato fondamentale per la completezza del racconto.
Quando ho iniziato a girare, del progetto non esisteva scrittura, solo il desiderio di
andare avanti. Non conoscevo a priori la forma da dare al film, né il suo incedere.
Non si poteva ipotizzare un prima e un poi, una preparazione e una scrittura, la
materia era troppo sfuggente, perché potesse essere ordinata con i metodi di
lavoro del cinema. Dovevamo iniziare a girare, trovare i personaggi protagonisti, la
struttura del racconto, la sua lingua strada facendo.
La spina dorsale del film infatti è costituita da stilemi semplici, di osservazione,
colloqui con forma di intervista, riprese di riunioni tra medico e paziente, tra
pazienti stessi con i familiari, improvvise confessioni. Non è stato semplice arrivare
però alla naturalezza necessaria a stare davvero con loro e a far “scomparire” la
macchina da presa.
Questo modo di filmare, l’unico giusto, l’unico possibile, ci suggeriva
indirettamente la forma del film, che imponeva alla piccolissima troupe solo
illuminazione naturale, l’impossibilità dell’uso del cavalletto e di quasi qualsiasi
accorgimento tecnico che potesse intralciare o inquinare il rapporto con i
protagonisti.
Tra tutti, il mio desiderio principale, era trovare la voce, la lingua, per
rappresentare, con il cinema, modalità estreme di stare al mondo. Esperienze, che
sicuramente e specialmente appartengono ai malati, ma con cui il mondo
cosiddetto normale condivide, spesso senza ammetterlo, temi, paure e domande
diventate oggi sconvenienti, vergognose o proibite.
Il nostro presente, ossessivamente stimolato da un’euforia performativa che gira
spesso a vuoto, tenta di estromettere dalla comunicazione e spesso anche dalla
“pensabilità” le domande fondamentali, quelle universali dell’essere umano.
Sembra paradossale ma sono proprio le domande che si pongono una gran parte
dei pazienti, rimanendoci loro però, a differenza dei più, drammaticamente
incagliati, perché troppo fragili per sostenerne il peso.
Sembra spesso che davanti alle loro domande si trovino di fronte lo specchio
riflesso del nostro indecifrabile presente.
La follia mi sembra la più efficace e la più contemporanea tra le possibili metafore
che illuminano il nostro tempo, visto il senso di “irrealtà” che a volte sembra aver
inghiottito tutti quanti.
Non è una percezione solo soggettiva ovviamente, i dati parlano chiaro. Gli
psicofarmaci rappresentano una delle principali componenti della spesa
farmaceutica pubblica, emergono forme di disagio psichico che non erano
altrettanto rilevanti nella psicopatologia del novecento: disturbi di panico,
borderline, anoressia, fenomeni di ritiro sociale che riguardano ragazzi sempre più
giovani.
Le risposte sul perché di questo andamento e sulle possibili cure le lasciamo ai
medici, agli specialisti, agli esperti.
Eppure l’accettazione, l’integrazione, la normalizzazione del problema psichico
dovrebbe essere un compito dell’intera collettività. D’altro canto è proprio una
delle protagoniste del film, Benedetta, a lasciarci intravedere una possibile
soluzione, semplice, ma potentissima: l’importanza della vicinanza, la necessità
della condivisione, la lotta all’isolamento.